martedì 8 settembre 2009

Julio Cortázar, Il gioco del mondo (Rayuela), trad. di Flaviarosa Nicoletti Rossini, ed. Einaudi Tascabili



Una folgorazione, un misto fra Kerouac (per il ritmo, per il jazz, per le visioni), Perec (per le passaggiate notturne a Parigi, per la vita un po’ sbrindellata)… e Javier Marias, forse, peccato che anche lui non finisca per ‘c’, ma non saprei dire perché. E poi sarà Javier Marias che assomiglia a Cortázar, non viceversa. In ogni caso.


Come si fa a non amare un romanzo che inizia dicendoti che questo libro si può leggere nell’ordine classico in cui si leggono i libri oppure si può leggere spulciando qua e là, seguendo il numero suggerito alla fine di ogni capitolo?


Impossibile dire quel che capita qui dentro, trama, una, forse mille... Impossibile anche raccontare quanto l’anima di uno scrittore che fa capolino fra le parole, possa arrivare a collimare perfettamente con l’anima del lettore, immerso nelle parole, in questo caso: io.
Le avventure di Horacio e della Maga, tra Parigi e Buenos Aires, bevendo molto mate e con le scarpe perennemente inzuppate di pioggia. E poi Talita e Traveler e Morelli e la clinica e il gioco del mondo e il jazz il mate la filosofia…
E che dire del meta-Cortázar e del meta-Rayuela che inonda il capitolo “Da altre parti”, in cui si possono seguire tutti i fili che reggono i dialoghi, i personaggi, i pensieri di ogni personaggio… è un po’ come fare un passo dietro le quinte, pur restando sul palcoscenico.


“Non ricordo esattamente se ho iniziato a scrivere il romanzo a Parigi o a Buenos Aires. Quello che so per certo è che un giorno d’estate, con un caldo spaventoso (doveva essere Buenos Aires) ho visto dei personaggi impegnati in una serie di azioni totalmente assurde. Erano affacciati a due finestre divise da pochissimo spazio ma con quattro piani sotto e cercavano di passarsi un pacchetto di erba mate e dei chiodi. Ho iniziato a scrivere dettagliatamente tutte le idee che venivano loro in mente per costruire un ponte con una tavola, con la quale attraversare il vuoto da una finestra all’altra e passarsi così il mate e i chiodi. […] Ho scritto quel capitolo, e alla fine (dura circa quaranta pagine) mi sono reso conto che non era un racconto. Ma allora cos’era? Era in un certo senso un frammento, una specie di cucchiaiata di miele sulla quale poi si sarebbero venute a posare mosche e api.”
E in effetti tutto il romanzo è un susseguirsi di azioni assurde, di personaggi alle prese con problemi surreali che forse non esistono e si creano loro per riempire dei vuoti che la vita si dimentica di riempire.
Così all’inizio, leggendo di Horacio che cammina per le strade di Parigi in piena notte cercando di consolare una pianista fallita di musica dodecafonica, oppure vedendo lui e la Maga parlare in gliglico, all’inizio ci scappa pure un sorriso, un’alzata di spalle, un’esclamazione del tipo ‘ma che assurdità!’… invece, continuando a leggere, si arriva alla fine e ci si accorge che in fondo in fondo, le occupazioni che impegnano i nostri personaggi non sono poi più surreali delle nostre, che quello che fanno loro della loro vita non è, alla fine, più surreale di svegliarsi tutte le mattine alle sette, andare a lavorare, fare la spesa, eccetera eccetera eccetera…

1 commento:

  1. Una delle cose più belle che ho mai letto su un libro che mi ha segnato la vita e influenzato come scrittore. Di sicuro uno dei 10 libri da salvare in caso di catastrofe (insieme all'Ulisse di Joyce e a Proust, Canetti, Rilke, Borges, Pessoa e Queneau...)
    Grazie.

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